Facciamo un gioco. Qui di seguito riporto alcune osservazioni e voi pensate a quali di queste vi rappresentano o comunque riconoscete come familiari:

  1. Prima si trova il bando e poi si sceglie il progetto da presentare. Questo comporta, fra le altre cose, che spesso non ho dati aggiornati sulla dimensione del problema, dati che giustificherebbero la mia proposta al finanziatore. Ma raccogliere dati sul problema ha un costo: chi mi paga questo lavoro di ricerca?
  2. I progetti li scrive praticamente una persona sola, persona che spesso ne scrive più di uno contemporaneamente. La persona che scrive i progetti si occupa anche di molto altro, non fa solo la/il progettista.
  3. I partner da coinvolgere nel progetto si sentono via mail o al telefono o in videochiamata al volo, due/tre volte massimo prima dell’invio del progetto al finanziatore: per accordarsi su attività e budget e firmare l’accordo di partenariato. È capitato spesso di costituire partnership con soggetti con i quali non si era mai lavorato prima, ma che fanno numero o che aumentano il punteggio per accedere al finanziamento.
  4. L’invio del progetto avviene a ridosso della scadenza oraria di consegna, dopo avere apportato le ultime modifiche e integrazioni (nostre e dei partner) nelle ore subito precedenti.

E potrei andare avanti… Ma fermiamoci qui. A che cosa rimandano questi 4 punti? Vediamolo insieme.

1. La programmazione, questa sconosciuta

Siamo talmente schiacciati sulla ricerca di fondi e sulle attività (il fare) che abbiamo finito per perdere il senso del nostro lavoro. Attenzione: non sto dicendo che si possa vivere senza fondi né che la sostenibilità economica sia questione secondaria e nemmeno che la capacità di agire e intervenire non abbiano valore. Al contrario: proprio perché abbiamo bisogno di dare consistenza e stabilità ai fondi raccolti e perché l’agire è troppo prezioso per essere sprecato, dobbiamo smettere di inseguire i bandi (il che, di nuovo, non significa che dobbiamo smettere di partecipare a bandi). Lasciamo qui da parte le importanti responsabilità della maggior parte dei grandi finanziatori pubblici e privati: se ne parla già molto e sono note da tempo, in particolare per la questione dei cosiddetti “costi di struttura” e del conseguente “starvation cycle”(l’articolo della Stanford Social Innovation Review che ne parla è ormai del 2009). Concentriamoci ora sulle responsabilità di noi ETS. L’unica salvezza è rimettere al centro la programmazione, la visione politica (nel senso più nobile del termine), di medio-lungo periodo, e dotarla di una strategia dentro la quale i bandi sono uno dei mezzi con i quali mettiamo a terra la nostra Missione. Significa anche programmare meglio il mix delle fonti di raccolta, differenziandole il più possibile e liberando opportunità anche a basso costo, che abbiamo sotto il naso e che non abbiamo mai esplorato. Significa, infine, investire nelle nostre persone, prendercene cura, dotarle di competenze adeguate alla complessità che stiamo attraversando. Altrimenti ogni anno saremo sempre da capo, a gestire “l’emergenza sostenibilità” senza avere mai costruito una struttura flessibile e a risposta rapida, capace di riadattarsi agilmente anche a scossoni come quelli di una pandemia.

2, 3. La co-progettazione è un essere mitologico

Siamo nati per fare co-operazione. Abbiamo parlato a lungo di co-sviluppo. Ci occupiamo di comunità educante, di welfare comunitario, promuoviamo quartieri come comunità di pratiche sociali innovative, spingiamo per la riabilitazione delle disabilità su base comunitaria… e potrei andare avanti all’infinito! Ma poi, quando programmiamo e progettiamo, al di là di brevi scambi e contatti, lo facciamo quasi sempre da soli. Siamo “noi” e “gli altri”. Ma che senso ha? Se davvero “ne usciremo solo insieme” (e non potrà che essere così nella complessità che abitiamo), allora dobbiamo lavorare insieme già in fase di (co-)programmazione e di (co-)progettazione. Nei modi più efficienti ed efficaci possibili, ben consapevoli della fatica che questo comporta (partiamo spesso da linguaggi, visioni, interessi e approcci anche molto distanti). Ma il tema è sempre lo stesso: è un costo o un investimento?

4. Non c’è tempo

A questo punto diviene più semplice toccare la questione “tempo a disposizione”. Se ho investito in co-programmazione e in co-progettazione, ho evitato tutta una serie di inefficienze e di rischi che mi fanno perdere tempo e sprecare i soldi faticosamente raccolti. Di tempo ne avrò dunque più di prima. Non solo: sarà tempo di qualità, perché impiegato insieme a tutti i principali soggetti in campo. A molte delle domande cui sarò chiamato a rispondere per un bando avrò già risposto. Rese routinarie le modalità di lavoro realmente partecipativo (aggettivo tanto abusato nei testi quanto poco riscontrabile nella realtà… ), la fatica si ridurrà significativamente. Decidendo e pianificando –insieme e per tempo – orizzonti di cambiamento e strategie di intervento, non arriveremo con l’acqua alla gola alla scadenza del bando. In alcuni casi passeremo dalla modalità “a bando” a quella appunto di co-programmazione territoriale (favorita peraltro dalle recenti Linee Guida pubblicate con Decreto n. 72/2021 sui rapporti con gli enti pubblici).

In sintesi, si tratta di riappropriarci del senso del nostro lavoro.

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